La teoria del plusvalore di Carlo Marx base viva e vitale del comunismo

La teoria del plusvalore di Carlo Marx base viva e vitale del comunismo

 

( «l’Ordine Nuovo», 1924, N°  3 - 4, 5 e 6 )

 

Sommario :

 

1. La teoria del valore e del plusvalore e i fenomeni moderni della economia capitalistica

L’applicazione della teoria dei plusvalore ai fenomeni economici

Lavoro necessario e sopralavaro

La teoria dei plusvalore colta in fallo?

Il processo di circolazione

2. La critica economica marxista e il sistema dl dottrine del comunismo

Le origini e le basi dei comunismo critico e l’economia borghese

L’analisi e la critica marxista

L ‘introduzione del concetto di valore

Dalla teorica del plusvalore al programma del comunismo

Marxismo e scienza, economica ufficiale

3. Il neorevisionismo di graziadei ovvero il comunismo della sesta giornata

 

 

 

Il libro che il compagno Graziadei (1) ha creduto di dedicare a combattere la teorica economica di Marx avrebbe dovuto deter­minare una più attiva discussione, non tante sul libro stesso, quanta sulla portata e l’importanza dei concetti marxisti posti in dubbio da Graziadei nella ideologia del movimento comunista moderno. Questa discussione è fmora mancata. Anche chi scrive non pua dedicare ad essa né il tempo occorrente ad un libro, né la competenza nelle discipline economiche necessaria quando si trattasse non solo di esibire i titoli ufficiali che a tanto autorizzino, ma altresì di svolgere sistematicamente il difficile e vasto tema. Quanto segue conterrà le osservazioni, più immediate che ogni seguace del marxismo, che non ne shi un fallace interpretatore, deve sentirsi portato el formulare alla lettura delle pagine con cui Graziadei ha fmalmente svolto le sue note opinioni, o una parte delle sue note opinioni, divergenti dalla dottrina accettata da tutti gli altri teorici e militanti del movimento comunista.

Le osservazioni riguarderanno tre punti. Il primo concerne l’applicabilità della teoria del valore di Marx alla spiegazione delle moderne fasi delle sviluppo capitalistico; il secondo, il posto che occupa la teoria del valore nell’insieme della teoria mar­xista, e di tutto il comunismo marxista; il terzo, la spiegazione di una attitudine come quella che pretende di respingere la parte economica, e accettare quella «storico-politica» del marxismo. I compagni che leggeranno dovranno perdonarmi se, senza raggiun­gere la compiutezza e l’evidenza di una trattazione scientifica, saro probabilmente in qualche parte della polemica condotto dall’argomento ad essere difficile. Non io certo pretendo di dire in merito l’ultima parola: credo che altri compagni, ed organismi, del Partito e dell’Internazionale, dovranno contribuire alla definizione del dibattito.

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1. LA TEORIA DEL VALORE E DEL PLUSVALORE E I FENOMENI MODERNI DELLA ECONOMIA CAPITALISTICA

 

Cominciamo a chiarire che Graziadei respinge, insieme alla teoria del valore, anche quella del plusvalore o sopravalore: la prima infatti è quella che spiega il valore delle merci come lavoro in esse «cristallizzato», e che Graziadei si compiace di chiamare sgraziatamente «ricardiano-marxista», la seconda è quella che fissa nel processo produttivo capitalistico la creazione del valore delle merci per effetto del lavoro e ne traccia le leggi, ed è opera originale ed esclusiva di Carlo Marx. Graziadei sembra voler indurre in equivoco nel dire, a pagina 22: «I marxisti (...) temono che cadendo tale teoria (del valore, di Ricardo-Marx) cada anche la teoria dei sopralavoro e dei «sopravalore», e di conseguenza quella spiegazione dei reddito capitalistico che è  così essenziale per la dottrina comunista». Ma in realtà Graziadei non fa grazia neppure alla teoria del «sopravalore», o plusvalore, non rispetta una teoria del sopralavoro, che non esiste in Marx come cosa distinta dalla prima, e sostituisce a tutta la spiegazione marxista del processo di produzione capitalistico una sua teoria del «sovraprezzo» che contiene diversissime conclusioni sulla formazione del profitto. Egli poco dopo dice, infatti: «il latto e la teoria dei sopralavoro sono concepibili e dimostrabili indipendentemente dalla teoria dei valore...». E qui è chiaro che la teoria, del «solo» Marx, sul plusvalore, è gettata a mare. Quella teoria del sopralavoro, che Graziadei mostra di adottare, è poi evidente che consiste non già nella definita e complessa dottrina che Marx applica al meccanismo dell’azienda capitalistica, ma in una vaga teoria generale, esclusiva­mente qualitativa, applicabile a tutti i tipi storici di economia (si veda a pagina 28-29), che nulla ha a che fare colle leggi del plusvalore scoperte da Marx nel processo genuinamente capi­talistico di produzione. Tutto il resto del libro sta poi a pro­vare che la stessa spiegazione marxista del processo formativo del profitto capitalistico viene ripudiata da Graziadei: al posto dei plusvalore compare il sovraprezzo, e questo sovraprezzo va a formare il profitto, non solo in quanto è figliato da sopralavoro dei salariati (non è dunque una teoria del sopralavoro che salta fuori) ma in quanto è pagato anche dai ... consumatori. Questa asserzione richiama le più brucianti pagine della polemica di Marx contro i giochetti degli economisti ortodossi. Ma non anticipiamo sulla conclusione a cui tendiamo, che cioè Graziadei debba rinunzare a salvare la capra del comunismo e i cavoli della sua economia universitaria, e che, per conto nostro certo, ma non sappiamo se anche per conto suo, sono i cavoli che devono essere spietatamente sacrificati.

Chi avesse qualche dubbio su questo accenno al succo del libro di Graziadei, può verificare quanto è detto in fine, a pag. 202-203, sulla insufficienza del sopralavoro a spiegare il sovraprezzo e a fornire una misura del sopravalore. Con ciò vogliamo solo stabilire, che si deve sostenere e difendere contro le critiche di Graziadei, non la sola teoria «ricardiano-marxista» del valore, ma la dottrina del plusvalore di Carlo Marx e di nessun altro, chiave di volta della nostra critica alla economia borghese, tesi centrale della maggiore opera del nostro maestro: Il Capitale.

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L’applicazione della teoria dei plusvalore ai fenomeni economici

 

La maniera colla quale Graziadei prende ad esaminare l’appli­cazione della teoria del plusvalore ai fenomeni economici è tale, che esigerebbe una preventiva esposizione completa della teoria stessa, quale Marx la ha definita, e non quale i vari critici se la prospettano. Ma non vogliamo essere eccessivamente pesanti, e temiamo di far sì che illettore non preparatissimo finisca col confondersi peggio nella ridda dei termini: lavoro, prodotto, valore, prezzo - sovralavoro, sovraprodotto, sovravalore, sovra­prezzo ... Ci serviremo quindi, per una più comoda esposizione, dell’esempio che Graziadei reca a pagina 218, e nel quale egli trae le conclusioni della sua dimostrazione che la teoria di Marx non spiegherebbe in certi casi il processo economico capitalistico, neppure con grossolana approssimazione.

Ecco l’esempio: si suppone che l’unica spesa dell’imprenditore sia il salario degli operai. Accettiamo la supposizione, poiché essa ben collima colla teoria di Marx: il plusvalore è relativo al solo capitale «variabile», ossia a quella parte del capitale che è destinata a pagare i salari, mentre il «profitto» va riferito a tutta la massa del capitale, compreso cioè anche il capitale «costante», che copre le altre spese per materie prime, logorio di utensili, etc. La discussione resta la stessa. Gli operai di quell’azienda lavorano 10 ore al giorno. L’unità di merce è venduta dal capitalista per 1 lira. Essa gli costa, in salari, solo 90 centesimi. Graziadei dice: il margine sarà del 10 per cento sul prezzo unitario, il sopralavoro è di un’ora, il lavoro necessario di 9 ore. La teoria di Marx qui si­ applica bene, se pure - ora lo vedremo - Graziadei si esprima inesattamente, poiché abbiamo un saggio del plusvalore, e un corrispondente rapporta tra sovralavoro e lavoro necessario, che non è del 10 per cento, ma del 10/90 = 11 per cento circa. Per ora andiamo avanti. Grazie ad un cambiamento di condizioni sul mercato - che può essere, ma Graziadei qui non lo dice, l’introduzione del monopolio parziale o totale dei produttori di quella data merce - il prezzo di vendita salga da una lira a 1,80 (non vi è la cifra ma una semplice operazione la fornisce). La percentuàle del prezzo che copre i salari (90 centesimi) è discesa al 50 per cento: ma il sopralavoro è rimasto lo stesso: ciò malgrado il margine dell’imprenditore è salito dal 10 al 50 per cento. Un capitoletto di Marx contiene qualche formoletta che ci mostra come Graziadei calcola male: infatti il nuovo saggio di profitto (ricordato che è posto a zero il capitale costante) è dato da 1,80 - 0,90 : 0,90, ossia del 100 per cento. Ma ciò non è quel che importa.

Fermiamoci su questo esempio, per spiegare un poco che cosa è la teoria del plusvalore e per confutare questa gratuita asserzione di Graziadei: il sopralavoro è rimasto lo stesso. Il lettore che abbia dubbi sulla fedeltà alla esposizione di Marx dei due contendenti, può confrontare il calcoletto che Marx stesso dà come esempio, nel primo volume del Capitale, capitolo VII, paragrafo l. Dio ci faccia grazia di adoperare lettere, come nell’algebra.

ln una data fabbrica gli operai facciano o ore di lavoro. Ricevano un salario giornaliero di s lire. Producano in un’ora m chilogrammi di una data merce. Facciamo il bilancio di quello che avviene per il lavoro giornaliero di un operaio. Esso costa al capitalista (l’imprenditore, dice più civilmente Graziadei, perché le funzioni possono essere diverse ...) un capitale sala:ri che è proprio s. Questo vuol dire che per avere il capitale totale si dovrà tener conto del numero degli operai, delle giornate lavorative nel periodo che si consideretà, ecc. Siccome noi cerchiamo dei «rapporti», ci basta il calcolo su un singolo operaio e un giorno di lavoro. Con s lire (fatta astrazione da ogni altra spesa per semplicità) il capitalista ottiene una quantità di merci che è m volte o. Questa quantità di merci è venduta in generale sulmercato a un prezzo tale, da ricavarne più di s, che è il costo, per il capitalista, della quantità m x o. Di qui il guadagno del capitalista sul lavoro dell’operaio. Come Marx determina matematicamente il montante di questa quotidiana «espropriazione» (tutti termini che non fanno per la economia ben educata di Graziadei, che conosce costi, margini, differenze, e altri tennini analoghi ...)?

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Lavoro necessario e sopralavaro

 

Il salaria che il lavoratore ha ricevuto rappresenta il prezzo della sua «forza di lavoro», ossia l’equivalente dei mezzi di sussistenza che l’operaio consuma per mantenere in efficienza la sua macchina umana. Ora questo salario è inferiore al valore della merce che l’operaio ha prodotta nel tempo corrispondente (e se, nel caso più generale, avessimo tenuto presente il capitale costante oltre il capitale salario, è inferiore all’incremento di valore che le materie prime acquisiscono, pagate tutte le spese, per l’opera del lavoratore). Se l’operaio lavorasse «per sé», lavorerebbe tante ore da coprire solo, col valore dei prodotto, il suo salario: ossia lavorerebbe di meno. Questo tempo di - lavoro è il lavoro necessario. Tutto il tempo successivo del lavoro è «fatto per il padrone» e si chiama sopralavoro (qui, si ricordi, riesponiamo solo, alla meglio, la teoria di Marx). Come fare a sapere quanto è il lavaro necessario? Si dovrebbe teoricamente calcolare il costo del mantenimento di un operaio per un giorno, e questo costo esprimerlo in ore di lavoro: nelle ore di lavoro necessarie a produrre tutti gli oggetti di consumo che il lavoratore ha adoperati per vivere un giorno. Un calcolo così fatto è impossibile, e inutile agli effetti della dimostrazione e applicazione della teoria di Marx. Si procede altrimenti, tenendo presente quel concetto fondamen­tale che Graziadei, come vedremo, baratta ogni momento, che si tratta di lavori, di valori, di prezzi, che rappresentano una media saciale per una callettività ecanamica prettamente capitalistica. Si suppone cioè che l’operaio si possa procurare quanto occorre al suo consumo aIle condizioni stesse, facendo ... un affare della stessa bontà di chi compra la merce presso l’imprenditore per il quale l’operaio lavora. Si ragiona come se si dicesse, più popolar­mente, e in modo evidente anche per chi non abbia chiara il concetto di valore: se gli operai di quella fabbrica non avessero padrone, fossero, poniamo, in cooperativa, quanto dovrebbero lavorare per produrre proprio tanta merce che, venduta, dia loro il salario s, e non di più? Questo tempo sarà illavoro necessario. E’ semplicissimo. Noi sappiamo che le merci prodotte da un operaio sono m chilogrammi per ora. Sia p il prezzo a cui si vendono. Per ricavare la somma s si dovrà lavorare un numero di ore o’, tale che m moltiplicato p, moltiplicato o’, sia uguale a s. Allora il lavoro necessario, o’, che risulterà minore di o, si calcola dividendo s per il prodotto di m x p.

Quale sarà il sopralavoro? Evidentemente o mena o’. Che cosa intenderemo (si capisce che siamo tornati al caso in cui il padrone c’è) per plusvalore? La differenza tra il ricavato della vendita del prodotto, che è m x o x p, e il salario s che per esso ha pagato il capitalista. E per saggio del plusvalore, secondo Marx? Il rapporto di questa differenza alla spesa salari, che nel nostro casa è sempre s.

Quanto abbiamo stabilito ci permette di scrivere una formo­letta. I dati che rileviamo dalla fabbrica sono o, m, s, p. Vogliamo trovarne il rapporto al lavaro necessario, a (che si è visto come si calcola), del sopralavoro, e d’altra parte il rapporto del plusvalore alla spesa salari. Questi due rapporti verranno eguali:

 

 

 

 

 

s

 

 

 

 

 

 

o -

-----------

 

 

sopralavoro

 

o - o'

 

 

m x p

 

m x o x p -s

----------------------

=

----------

=

------------------

=

----------------

lavoro necessario

 

o'

 

 

s

 

s

 

 

 

 

 

-----------

 

 

 

 

 

 

 

m x p

 

 

L’ultima frazione si può scrivere per quel che abbiamo detto:

plusvalore

-------------------

capitale salari

ossia i due rapporti che ci siamo proposti di determinare sono uguali. Chi non capisce la formula, capisce lo stesso che l’operaio è sfruttato dal padrone e che questa non è solo una affermazione approssimata e qualitativa, ma significa, con le parole di Marx: Il saggio del plusvalore è la esatta espressione del grade in cui il capitale sfrutta la forza di lavoro.

Torniamo ora all’esempio Graziadei. Nel primo caso Graziadei ci dà la spesa salari, non per un operaio e un giorno, ma per unità di mese, in 90 centesimi, e il prezzo di vendita in 1 lira. Egli determina il sopralavoro e il saggio del plusvalore, a parte le mende materiali già fatte al suo calcoletto, proprio col metodo che abbiamo indicato: non ci fermiamo a verificarlo più a lungo. Ma, nel seconde caso, egli non si cura affatto di applicare il procedimento di calcolo, pur così evidente, ma butta tra le gambe al lettore la conclusione: il sopralavoro resta lo stesso. Invece ognun vede che, se il prezzo è cambiato, cambia tutto il risultato del calcolo. Con la spesa salari di centesimi 90 si ottiene un valore di prodotti 1,80? Si deve ora dire: il rapporto del sopralavoro al lavoro necessario è di

m x o x p - s

 

1,80 – 0,90

 

 

------------------------

=

------------------------

=

100%

s

 

0,90

 

 

Nell’applicare la formoletta non abbiamo fatto che considerare tutti i termini divisi per la stessa quantità di m moltiplicato o, di cui m non è precisato nell’esempio, ma che lascia inalterato il rapporto. Cioè il lavoro necessario è diminuito, il sopralavoro è cresciuto, il loro ràpporto è perfettamente uguale, anche in questo secondo caso, a quello trovato per il plusvalore.

Chi questo non veda attraverso le formule stabilite, lo intende dal criterio empirico accennato: saliti comunque i prezzi di vendita, se non ci fosse padrone, gli operai potrebbero benissimo, intascando lo stesso compenso giornaliero, ridurre notevolmente le ore di lavoro: la giornata lavorativa in questa ipotesi corrisponde a quello che si chiama lavoro necessario: tutte le ore in più sono sopralavoro, aumentato nel secondo caso, come è aumentato il profitto dell’imprenditore, e nella stessa ragione.

Graziadei non può certo contestare che il sopralavoro non si calcoli che dal prezzo di vendita, sia perché Marx così la calcola, sia perché a lui stesso, a Graziadei, avendo fatto comodo di così calcolarlo nel primo esempio, corre obbligo di non cambiar metodo nel secondo. La pretesa insufficienza della teoria del plusvalore non sussiste per nulla.

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La teoria dei plusvalore colta in fallo?

 

La discussione può essere stata pedante; ma la abbiamo fatta più che altro per spiegare a chi non lo sapesse che cosa è la teoria del plusvalore, che si esprime in chiare leggi scientifiche, e non in astrazioni sul concetto di valore come Graziadei lamenta ad ogni passo. Perché noi conosciamo la obiezione: Marx sa che non vi è coincidenza completa tra valore di scambio e prezzo, e la sua supposizione che nella media il prezzo tend a al valore di scambio quale-egli lo arriva a determinare partendo dal lavoro, non vige che per certe merci prodotte su scala colossale e nella ipotesi della piena applicazione della libera concorrenza. Per vedere che cosa valgono queste obiezioni, poniamo in rapporte la portata e lo «scopo» della teotia del plusvalore con i casi nei quali Graziadei si vanta di poterla cogliere in fallo.

Il magnifico, organico sistema della critica marxista all’eco­nomia borghese, come meglio mostreremo anche più oltre, suppone ad oggetto del suo studio un capitalismo «tipo» squisita­mente sviluppato e dominante tutta la vita della produzione. Ció non toglie che il metodo generale, e le sue leggi scientifiche, valgano nello stesso tempo a seguire il processo evolutivo del capitalismo e la sua coesistenza, come sempre si verifica in realtà, con gli altri tipi di economia sociale. L’analisi nella sua più semplice formulazione suppone un regime di aziende capitalistiche in piena «libera concorrenza» tra loro. La teoria del plusvalore dimostra che in questo regime il carattere essenziale del processo produttivo è la formazione di un profitto per i capitalisti tratto dal lavoro dei salariati. Marx stesso indica, naturalmente, che la sua teoria, riferita al tipo sociale medio di azienda, di produttività del lavoro, di bontà organizzativa dell’impresa, non serve a dare direttamente la misura dello sfruttamento operaio e del guadagno operaio in un singolo caso, potendo esservi per eccezione alla media, localmente e momentaneamente, una tale contingenza, per cui un capitalista perda invece di guadagnare, e un operaio sappia così ben fregare la disciplina della fabbrica da non produrre oltre il salario che riceve. Più ancora; la teoria non è stata fatta perdare direttamente, ripetiamo, le misure della sfruttamento e del guadagno in attività economiche a carattere precapitalistico, o misto di diversi tipi economici.

Diciamo di più: nell’analizzare il meccanismo del «regime» di economia capitalistica «normale», Marx, nel complesso della sua critica, vuole appunto giungere, e giunge, a dimostrare che un regime di normalità permanente è impossibile, e che il preteso gioco di compenso della libera concorrenza si risolve in ondate di crisi, che sconvolgono le quotazioni del plusvalore, determinano i fallimentidei capatalisti e la disoccupazione degli operai ... Probabilmente, nel complesso divenire della storia economica, non si troverà mai una azienda, nella pratica, che offra la esemplifica­zione matematica esatta della legge del plusvalore attraverso misurazioni immediate, su dati empirici.

Graziadei sfonda dunque porte apertissime con la serie delle sue curiosità giornalistiche su certi casi particolari di profitti di capitalisti e salariati, citando il fortunato compratore di un futuro suolo urbano, o la gola di Caruso.

Egli potrebbe citare anche il ladro professionale: tanto Marx gli ha già dimostrato nel Capitale che anche il frodare da parte di uno dei contraenti nella compravendita non causa produzione sociale di plusvalore, ma uno spostamento di appropriazione di un valore, che resta tutt’altro fenomeno.

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Il processo di circolazione

 

Definite nel processo produttivo le leggi del plusvalore, Marx prosegue nello sfudio del processo di circolazione. Secondo Graziadei si tratta di inutile per quanta grandiose sforzo, contenuto nelle analisi del III e IV volume del Capitale. Si sa in quali condizioni questi sono giunti fino a noi e i materiali originali di Marx attendono forse ancora un altro Engels che abbia la possibilità di meglio rielaborarli. Ma noi non entriamo qui in questa discussione. E evidente, elementarmente, agli effetti delle leggi del plusvalore dimostrate per processo di produzione, che le vicende della circolazione sul mercato, dove i prodotti della fabbrica capitalistica si incrociano in modo complicatissimo con altre forme di prodotti e di servizi, non possono inficiare l’analisi della sfruttamento nella fabbrica a danno della classe salariata. Nella circolazione avvengono, tra buoni e cattivi affari, tra speculazioni, frodi, e dabbenaggine da parti opposte, delle compli­cate ed incrociantisi ondate di compenso nei valori, che lasciano vera la dottrina marxista sulla produzione capitalistica.

Noi per dimostrare la legge del plusvalore, e in linea più generale la teoria del valore di Marx, dobbiamo ricorrere all’esame di economie «tipo», e Marx lo avverte venti volte nella dimostra­zione che si snoda come la spina dorsale della sua opera, il che non gli impedisce di mostrare una formidabile analitica erudizione in materia di storia e geografia economica e di scrivere pagine e capitoli descrittivi del capitalismo e di tutte le forme economiche. Il piano della sua opera principe, tracciato nella prefazione della Critica dell’economia politica, andava al di là dei limiti stessi dell’opera sul capitale, per trattare di «capitale, proprietà fondia­ria, salariato, Stato, commercio estero, mercato universale».

Ma gli uomini che come Marx posseggono qualità eccelse nella analisi e nella sintesi, fanno a gran diritto epoca

La teoria del valore ci spiega tutti i casi «tipici», «puri», del meccanismo produttivo. Supponiamo, non Robinson, che non è un «tipo» di economia riconoscibile frammisto ad altri e sceverabi­le dall’analisi scientifica nei suoi caratteri, ma una società di produttori individuali, ognuno dei quali possegga tutti gli strumen­ti occorrenti a produrre una data merce. Che cosa se non il lavoro, la misura di esso data dal suo tempo «medio», misurerà i valori di scambio, ossia i prezzi con cui si permuteranno quantità corrispon­denti di merci? Naturalmente se sopravviene, sul mercato, la funzione di intermediari, speculatori, accaparratori, le cose si complicano, non nel senso che cessi di essere vera la teoria del valore, ma nel senso che le misure dirette dei prezzi non la verificano plù immediatamente. Il primo capitalismo che appare è quello commerciale ed usurario; Marx dimostra perché deve essere, come forma spuria, escluso non dall’indagine con la guida della dottrina del plusvalore, ma dall’analisi che la teoria condusse a scoprire e che permette di ridimostraria quando si voglia. Questa analisi prende ad esaminare la grande fabbrica, la produzione di merci su vasta scala. Essa dà risultati teorici intorno ai quali si aggireranno, con sufficiente approssimazione, le medie delle misurazioni che possiamo trarre dalle statistiche dei fenomeni economici e dei prezzi. Graziadei ammette questo ma aggiunge: finché dura il sistema della libera concorrenza.

Ecco la sua grande obiezione: i fenomeni del monopolio parziale e totale, ignoto o quasi a Marx che non conosceva lo sviluppo grandioso odierno dei sindacati, dei trusts e dei cartelli, vengono a demolire la legge del plusvalore. Noi abbiamo dimostra­to dove era l’errare nel calcoletto dell’esempio di Graziadei: traduciamo in termini per così dire storici la confutazione. Parliamo di un regime di sindacati o monopoli totali «esteso a tutta la produzione e caratterizzante tutta una società economica».

Questa è la sola maniera scientifica di tentare una dimostra­zione che la teoria del valore cade in difetto. Ebbene, avverrà questo: ciò che fa l’industria per una data merce, aumentando grazie al monopolio i prezzi di vendita, a parità di costo di produzione, sia fatto per tutte le altre merci, in egual misura. Che cosa avverrà? Che ogni consumatore dovrà pagare, poniamo, il doppio, in media, tutto quanto acquista. E consideriamo quella gran massa di consumatori che sono i salariati: avverrà che il loro mantenimento costerà il doppio. Finché non sopravvengono altri fenomeni di crisi che qui non esaminiamo, che potrebbero tendere al raddoppiamento dei salari, cioè a riportare le cose al punto di prima, e comunque questa crisi si svolga, è chiaro questo: che, come avveniva nel nostro calcolo sull’esempio di Graziadei, il saggio del plusvalore a beneficio dei capitalisti essendo aumentato, sarà diminuito il lavoro necessario e aumentato il sopralavoro degli operai nella stessa misura media.

Questo significa che vige la legge dei plusvalore: tutto il profitto è lavoro non pagato ai salariati. Cioè avverrà lo stesso che avverrebbe se tutti i capitalisti potessero mettersi d’accordo a dirnezzare il salario dei lavoratori, i prezzi dei generi restando fissi. Approfittando dell’equivoco che nasce dal considerare un solo ramo di industrie sindacata e tutti gli altri liberi, Graziadei ha tirato fuori la trovata che per spiegare questo si deve pensare a un sovraprezzo sui consumatori, che è veramente il suo capolavoro di preteso economista proletario!

Noi qui non accenniamo nemmeno alla effettiva applicazione del metodo di Marx e delle leggi sul valore e il plusvalore alla modema fase del capitalismo. Kautsky, Hilferding, Luxemburg, hanno lavorato su questo terreno, e Lenin ha dedicato al problema il suo notissimo libre, per tacere degli altri. Noi restiamo su un terreno generale quanta elementare, per distruggere la pretesa dimostrazione di Graziadei che «a priori» si deve buttare via la teoria di Marx per capire qualcosa di tali fenomeni.

E ora, nella seconda parte del nostro studio, che vedremo un poco meglio che cosa significhi la tesi di Graziadei basata nella parte negativa su errori di applicazione della teoria che egli avversa, in quanta vuol elirninare dal campo della scienza economica ogni dottrina del valore, e conoscere solo l’andamento empirico dei dati economici perché ciò ha rapporta col quesito se, tolta che fosse di mezzo la dottrina marxista del valore, resti qualcosa di una critica economica, non pure marxista, ma socialista nel senso più lato.

Prima abbiamo cercato di provare che l’opinione di Graziadei è intrinsecamente sbagliata: ara vogliamo mostrare che è antimarxi­sta e antiproletaria.

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2. LA CRITICA ECONOMICA MARXISTA E IL SISTEMA Dl DOTTRINE DEL COMUNISMO

 

Dinanzi all’inaudita asserzione di chi dovrebbe essere uno dei teorici del Partito Comunista - e che in Italia sarebbe certamente uno dei meglio preparati a tal compito per cultura scientifica e acume di indagatore - che si possa accettare la critica storica e politica del capitalismo dataci da Marx, senza ritener per valida la teoria del plusvalore, e insomma tutta la critica economica del capitalismo, noi contrapponiamo l’affermazione che senza la parte economica il contenuto storico e politico del comunismo non si puo reggere. E lo dimostriamo ricordando come la critica marxista si sia costruita e si costruisca nella coscienza del movimento comunista mondiale, e dei suoi fondatori.

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Le origini e le basi dei comunismo critico e l’economia borghese

 

Il marxismo comincia a sorgere c come sistema critico all’indo­mani della grande rivoluzione borghese. Esso fa presto a fare giustizia delle dottrine filosofiche che per il nuovo regime sarebbero il trionfo della verità contro la fallacia e l’arbitrarietà delle filosofie teocratiche; e a ridere dei filosofemi metafisici della nuova teoria politica borghese sull’eguaglianza e la libertà.

Il marxismo, dottrina del proletariato, ha sott’occhio le prime informi proteste delle classi che il nuovo regime tiene sacrificate, le prime elucubrazioni socialistiche degli scrittori che denunziano la ingiustizia economica stridente sopravvissuta alla rivoluzione. La sua critica scende pero dalle nuvole della morale sociale, per adottare un metodo rigorosamente scientifico e scoprire dove risiede l’inganno degli apologisti del regime borghese e liberale.

Il costruirsi di una coscienza politica del quarto stato avviene in quanto la base dell’indagine viene portata dal terreno filosofico, giuridico, morale a quello economico; in cio sta la scoperta di Marx sul metodo del determinismo economico; in merito al quale strumento di indagine, ci piacerebbe sapere la opinione di Graziadei.

Portata l’attenzione sullo studio dei fatti economici, il marxi­smo tende a comprendere come la difesa dei criteri giuridici e politici borghesi significhi in effetti la difesa di un certo sistema di economia e di una certa classe sociale che di quel sistema è la beneficiaria. La scienza economica ufficiale, pur fomendo a Marx un lavoro scientifico che egli utilizzerà largamente, non dice nulla di simile, anzi nega energicamente una tale interpretazione. Ed il marxismo definisce invece, la sua critica di tutta la dottrina politica e giuridica del terza stato borghese, ponendone le basi nella critica dell’economia ufficiale classica. Vediamo come la scienza economica marxista si contrapponga alla prima e come solo in questa contrapposizione si possa vedere sorgere il concetto di classe, di lotta di classe, di avvicendamento rivoluzionario delle classi: concetti che muovono dallo studio delle forme di produzione e attraverso i quali soltanto si puo arrivare a quel programma storico e politico del comunismo che Graziadei vuole invece accettare campato in aria e avulso dalle sue origini.

Che cosa sostiene, al tempo di Marx, e dopo ancora, malgrado nuovi paludamenti di armatura scientifica scrupolosa e complessa, la economia borghese? Non volendo conoscere opposte classi, neppure es sa vuole riconoscere, nel groviglio dei fatti economici che si susseguono, lo sviluppo di date forme tipiche di economia le quali maturino e tramontirio, e l’opposto valore dei rapporti economici per gli uomini - i «cittadini liberi ed eguali» - che si trovano in diverse condizioni rispetto all’impiego degli strumenti produttivi. Quindi l’economista classico si tiene alla continuità e analogia delfatto economico malgrado vicende storiche e politi­che, si astiene il più che puo dal formulare sistemi teoricidi spiegazione di quanto avviene nel mondo economico, e limita la sua dottrina, dopo la registrazione dei fenomeni, alla apologia del modo col quale si svolgono e raggiungono illoro equilibrio, che asserisce sarà tanto migliore quanta più si «lascerà fare e lascerà passare», astenendosi da ogni intervento dei poteri pubblici, fidando sui vantaggi -,miracolosi della «libertà» degli atti econo­mici.

Dove si verifica questa pretesa eguaglianza e libertà di tutti quelli che compiono atti economici? Sul mercato, nel campo della scambio di merci, che diviene quindi il terreno centrale per la descrizione della economia. L’economia borghese, che deve evitare certi passaggi scottanti, tende ad essere naturalmente una scienza dei prezzi, una statistica delloro variare, e una apologia, che nelle forme moderne è solo divenuta più abile e prudente; delle leggi che ne assicurerebbero in modo provvidenziale e nell’interesse di tutti il più felice equilibrio. Stranamente vicina alle ostinate preoccupa­zioni di Graziadei, e sostenendo come lui, nella sola prima epoca­ mena scientificamente di lui, che la muove solo il desiderio di obiettività e di sicurezza positiva delle conclusioni, l’economia professata nell’interesse della borghesia vuole vedere solo i «liberi» compratori e venditori che vanno al mercato, colle stesse possibili­tà di guadagnare o perdere, se non colla certezza di fare tutti degli ottimi affari ... Tutto essa riduce a una teoria dei prezzi, e tutt’al più dei «costi» come li può dedurre da altri fatti misurabili del mercato, cioè da semplici operazioni di addizione di altri prezzi. Le teorie del valore di questi economisti sono elucubrazioni senza senso, e ben presto essi verranno sul terreno della esclusione di ogni teoria del valore e di ogni intento di apologia palese, bastando ad essi di distrarre l’attenzione dai punti salienti, sviscerati invece senza pietà dalla economia rivoluzionaria di Marx.

L’economia conservatrice ragiona e calcola come Graziadei. Per l’imprenditore vi sarà l’insieme dei prezzi a cui compra, e il prezzo a cui rivende, maggiore, logicamente, se no non si troverebbero più dei cittadini che si disturbassero a fare da imprenditori, con grave danno della società. Quindi vi è il, costo del lavoro, il costo del capitale (interesse), il costo delle materie prime, le spese di manutenzione, le quote di ammortamento... dall’altra parte il prezzo di vendita. Questo processo nulla ha di dissimue, secondo tale teoria, da un processo puramemte commer­ciale, col suoprezzo di acquisto della merce e il prezzo, di rivendita. Nell’uno e nell’altro casa questa dottrina, nella sua prudenza scientifica, non definisce che dei margini come differen­ze tra i costi e i prezzi ultimi di vendita: il cercare di più è delitto. Teoria dunque del prezio: ma non nel senso che si possa indagare quali elementi hanno contribuito a formare questo prezzo finale, maggiore dei costi da cui si è partiti, perché allora si deve introdurre il concetto astratto di valore; tutt’al più si può fare una «storia dei prezzi» assumendo che questi sono funzione dei prezzi precedenti, o fabbricare teorie come quelle di Graziadei sul sovraprezzo, in cui sussiste l’equivoco fondamentale: il mercato fatto campo centrale dell’analisi, e la parità di trattamento al fatto puramente commerciale e a quello produttivo-industriale. Questo equivoco conserva tutto il suo valore reazionario, malgrado Graziadei vi aggiunga una secondaria teoria, ripetiamo solo qualitativa, del sopralavoro e vedremo tosto il come.

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L’analisi e la critica marxista

 

Ma si presenta Carlo Marx (per buona fortuna di Graziadei prima che questi avesse scritto il suo libretto) e’a staffile brandito travolge questo edifizio di gesuitismo. Il Mercato, campo ove magicamente trionfano «Giustizia, Libertà, Eguaglianza e ...Ben­tham (il famoso apologista della libera concorrenza») è une scenario che Marx fa subito crollare, dopo aver mostrato che bisogna spingere oltre l’esame e lo studio dei fatti, per intendere l’essenza e il divenire della vita economica. Le leggi della circolazione, per quanto la loro applicazione possa essere multifor­me e complicata da mille fattori, non presentano difficoltà sostanziali e non contengono la chiave della questione economica appunto in quanta la vogliamo porre a base di una interpretazione storica e politica. Che sul mercato si speculi, si frodi anche, si colgano bene o male dai singoli gli alti e bassi delle curve dei prezzi, non è cosa che ci dica ancora che di nuovo e di mutevole appaia, seconda grandi epoche e forme tipiche, nel quadro della economia umana. E Marx, fatto crollare il variopinto scenario, levato a nascondere la turpitudine del sistema borghese, si getta alla ricerca delle leggi della produzione: ecco che cosa bisogna intendere per le varie epoche che si prendono ad esaminare: come erano utilizzati gli strumenti produttivi, a seconda del loro sviluppo tecnico, e quali rapporti economici, e poi sociali e giuridici, si stabilivano, tra gli uomini a seconda dei sistemi produttivi. Lasceremo  così il campo magico del mercato commer­ciale per entrare, a seconda dei tempi, nel feudo ove curvo sotto lo stafftle lavora il servo della gleba, nella bottega dell’artigiano, ed infine nel Sancta sanctorum del regime economico moderne: la fabbrica, per sviscerarne la vita con ben altro che le operazioni aritmetiche che decorano i libri della Ditta tenitrice dell’azienda.

Ne viene fuori una analisi del tutto nuova e ofiginale, una teoria delle successive forme storiche di produzione, una teoria, in particolare, della forma capitalistico-industriale contemporanea, e infine la conclusione che i filistei temono di veder apparire, la teoria della morte dell’economia capitalistica, il programma sociale dei suoi eredi: i proletari. Ed è questo il comunismo, non più pietistica o teoreticistica, seconda i casi, protesta morale, ma formidabile costruzione di certezza scientifica, arma perfezionata data in pugno alla futura classe vincitrice, che con essa muove alla demolizione di un mondo.

Carlo Marx mette da banda la questione del profitto puramen­te usurario e commerciale, dopo aver dimostrato che con esso appare la prima forma storica embrionale del capitalismo e sottopone alla vivisezione il, tipo di azienda capitalistica giunto a maturità perfetta: la produzione industriale moderna.

Non che Marx ignori o trascuri i particolari storici della evoluzione economica e il necessario coesistere, ad ogni epoca, dei vari tipi: anzi egli, dopo aver dimostrato in materia una cultura formidabile che toglie a chicchessia il poter tacciare lui e la sua scuola di semplicismo, annunzia come l’indagine, delle effettive situazioni economiche si farà scientificamente quando si saranno ben precisate le leggi proprie di ogni tipo: e valga un mirabile esempio: l’analisi dell’attuale economia russa fatta da Lenin e da Trotsky a proposito del dibattito sulla Nuova Politica Economica.

E Marx ci dà, nel Capitale, ma in realtà traccia fondamental­mente ancor prima, nel Manifesto, le leggi scientifiche che spiegano il meccanismo di produzione del capitalismo moderno, e i rapporti che lo caratterizzano. Il Capitale esce più tardi, solo perché preme a Marx di sistemare la materia in modo da confutare ogni obiezione, e fare la critica di tutti gli economisti più noti: lavoro enorme che gli riesce di compiere, in parte, dopo molti anni, solo perché deve dedicarsi alle quotidiane necessità della battaglia rivoluzionaria: né Marx era uomo da mettere in prima linea, nei momenti di tensione sociale e politica, la redazione del libro, pur trattandosi di «quel» libro ... Ma fin dall’epoca del Manifesto la dottrina essenziale sulla produzione capitalistica è in piedi, nella sua ossatura destinata a sfidare le tempeste, tra le quali non vorremmo comprendere la critica del nostro Graziadei. Marx stesso, ed Engels, fanno in molti testi la storia della formazione delle loro opinioni. Valga questo a confutare la piramidale asserzione di Graziadei, in una delle arrabbiate difese del suo libro, che Marx codificò nel Manifesto il programma comunista, prima di aver abbracciato le opinioni contenute nel Capitale in materia di scienza economica.

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L ‘introduzione del concetto di valore

 

Tornando all’argomento, noi troviamo nell’opera di Marx la esposizione delle leggi scientifiche che ci permettono di intendere il processo capitalistico di produzione. Per potere dare forma a queste leggi, che devono poi servire da punto di partenza allo studio della evoluzione storica del capitalismo (sua origine, suo incrociarsi con altre forme economiche; sua decadenza, natura delle forme che ad esso succederanno), si tiene conto naturalmente dei dati misurabili, che sono, insieme ai vari prezzi, le quantità di mercanzia, i tempi di lavoro, ecc. ma, come in ogni teoria deve farsi, e può farsi con molteplici modi e tenninologia, si introduco­no nuove quantità non misurabili, ma definite nella loro misura per rapporta a quelle misurabili. Nel sistema di leggi di Marx possiamo quindi parlare con piena sicurezza scientifica di valore e misura del valore. Forse si potrebbe esporre la stessa te aria, e le stesse leggi matematiche, senza usare la parola valore, e anche adoperando un’altra quantità «derivata» che non sia il valore: restando la stesso il contenuto della descrizione del processo in esame. ,

Dire che parlare di valore è una arbitrarietà metafisica, poiché il valore non si vede o non si pesa, significa solo non capire nulla di metodo della scienza sperimentale e di storia del metodo scientifi­co. Ogni nuova teoria, anche in quanta potrà essere superata da una ulteriore più completa, che senza escluderla la abbracci, ma soprattutto in quanta demolisce e seppellisce le teorie errate anteriori, introduce nuove definizioni di quantità che compaiono nelle sue leggi, e che non sono suscettibili di misura empirica immediata. Le obiezioni contra i filosofeggiamenti morali e psicologici sul valorenulla intaccano della maniera logica e sperimentale con la quale Marx la introduce, come ponte tra precisi punti di partenza e di arriva. Ad esempio la teoria della gravitazione di Newton-Galileo, che decisamente prevalse nelle sue applicazioni all’astronomia sulle dottrine aristoteliche, fa un così gigantesco passa innanzi perché introduce il concetto di massa, sebbene la massa non si misuri e, se così piace ai filosofi, «non esista», mentre noi possiamo fare solo, sui fenomeni meccanici, misurazioni di distanze, tempi, e forze (i pesi che misuriamo essendo forze e non masse). Ora noi possiamo costruire la meccanica newtoniana partendo da una definizione della massa, come unità fondamentale insieme al tempo e alla spazio: possiamo, come lusso teorico, basare la deduzione su una definizione della unità forza e dedurne le leggi che contengono la massa, si puo forse oggi con i nuovi ritrovati sui legarmi tra massa ed energia (unità derivata dalle precedenti nel vecchio sistema) esporre una meccanica in cui si elimini una di quelle unità fondamentali: tutto cio non colpisce la validità dei rapporti defmiti dalla legge di Newton, in quanta quadrano mirabilmente sulle misurazioni fatte nel campo della esperienza, come classica­mente spiegarono le leggi che Keplero aveva dedotte, per il movimento dei pianeti, dalle misurazioni di Tycho Brahe. Accennia­ma per i curiosi che tale nostro argomento, scelto a casa nel campo della scienza, non è inficiato dalla eventuale verità delle più moderne teorie gravitazionali, senza insistere su questo.

Che vi è di antiscientifico nella introduzione del valore, per analogia, se vogliamo, ad una «massa economica»? Noi possiamo dire, non esigendo approssimazioni del grado di quelle necessarie nelle scienze fisiche, che prendiamo i prezzi medi come misure del valore (di scambio), trascurando certe oscillazioni dovute a fatti della circolazione, così come nella pratica misuriamo le masse dai pesi dei corpi alla superficIe terrestre, pur sapendo che massa e peso sono case diversissime, per il gioco che hanno sulle nostre leggi, e che il grammo massa non ha il peso di un grammo, ma un peso lievemente diverso seconda la località e anche seconda il tempo.

Non meno antiscientifico sarebbe contestare a Marx il diritto di tenersi, in quella analisi generale che mira a trovare le leggi del processo produttivo capitalistico, ad un casa tipico, e altrettanto per le altre forme economiche. Il biologo a buon diritto, e soprattutto perché non ne potrebbe fare a mena nella ricerca di quanta più si approssima alla verità scientifica, parla di specie, pur sostenendo che lentamente si evolvono l’una nell’altra; e il geologo deve per necessità tracciarci la «serie dei terreni», come si dovrebbero incontrare dal basso in alto e nella successione delle epoche, pur essendo indiscutibile che in agni epoca coesistettero nella crosta terrestre svariatissime fonnazioni, e che nella pratica non troveremo mai negli scavi e nei sondaggi una stratificazione in tutto corrispondente alla serie tipo, potendo comunque variare le coesistenze e le lacune della successione.

La introduzione della quantità valore serve a Marx per formulare nella maniera più suggestiva le sue leggi. Potrebbe essere mutata la foggia della sua esposizione, e contro di essa si può parlare in nome della pretesa e ipocrita imparzialità della scienziato: quanto a noi ce ne stiamo allo stile di Marx, perfettamente a posto in una trattazione scientifica, che è anche una battaglia rivoluzionaria; e tanto meglio se una tale forma urta le suscettibilità avversarie.

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Dalla teorica del plusvalore al programma del comunismo

 

Il concetto di valore serve a Marx per stabilire la facile relazione che il valore è proporzionale al tempo di lavoro «medio sociale» occorrente alla produzione di una data mercanzia. Questo permette di analizzare che cosa avviene nella fabbrica, dissipando il volenteroso equivoco sul valore che già aveva la materia prima entrata nel ciclo produttivo. Ridotto tale valore iniziale teoretica­ mente a tempo di lavoro, ci riesce possibile eliminare questa costante al principio e alla fine del processo, e concludere che la mercanzia lavorata ha subito un aumento di valore, e quindi di suscettibilità di aver prezzo sul mercato, il cui apporta è dato dal tempo di lavoro umano che vi si è attualmente «immagazzinato». Ora, e qui non facciamo che ripetere quanta abbiamo detto nella prima parte e quanta dice Marx, il fatto sostanziale è che tale aumento di valore è più grande del corrispondente salario dato agli operai. Ossia la caratteristica del sistema salariato è il fatto che il salario del lavoro è al di sotto del suo valore, ossia del valore che quel dato lavoro apporta alle merci. La introduzione del valore ci permette di stabilire la legge numerica dell’eccedenza in questione. Si potrebbe variare all’infinito il frasario e la presentazione del fatto,e Marx scelse come più suggestive le definizioni derivate di lavoro necessario, ossia tempo di lavoro in cui si produce un valore equivalente al salario, e di sopralavoro, ossia tempo di lavoro in eccedenza, in cui gli operai lavorano per il padrone e non per se stessi. Si può introdurre la definizione della forza di lavoro degli operai, ossia della merce che il capitalista acquista con il salario, per dire quindi che questa merce è la sola che il capitalista trova sul mercato dotata della qualità di non trasmettere puramente al prodotto il suo costo, come valore, ma di trasmettergli l’aumento del valore che al capitalista preme per realizzare il suo guadagno. Nulla in tutto questo vi è di arbitrario o di scientificamente illegittimo; sono diverse formulazioni che tendono a stabilire la medesima legge: lo stesso rapporto misura il saggio del plusvalore da cui dipende il profitto del capitalista, e il grado di sfruttamento del lavoro dei salariati.

Il succo sta in questa fondamentale asserzione: il margine che si realizza sul costo della mano d’opera (forza di lavoro) è una cosa ben diversa dai margini occasionali scaturiti sul costo delle materie prime o, se si vuole considerare il capitalista divisa dall’imprendi­tore, dei capitali, ecc. Questi nuovi margini nel fenomeno media si compensano e si annullano: resta in piedi la eccedenza estorta dal lavoro umano, chiave di volta del mistero. Che la cosa possa esporsi in vari modi non è, come qualche stenterello potrebbe credere, un nostro ripiego, ma una pura considerazione di metodo scientifico: ad esempio Marx stesso dà varie formulazioni della stesso fenomeno, laddove (Capitale, vol. I, Cap. VII, par. 2) mostra come si può convenzionalmente esprimere il valore e il plusvalore in parti proporzionali del prodotto, o in parti proporzionali della giomata di lavoro, senza con questo voler dire che materialmente una parte del prodotto sia uscita dallavoro dell’operaio e un’altra no, o che in un certo momento l’operaio sia libero e in un altro sfruttato, ecc. (2).

Che cosa sorga da questa asserzione che il profitto del capitalista nel regime industriale moderno è tutto misurato dalla sfruttamento dellavoro operaio, in senso matematico quantitativo, e non come vaga asserzione qualitativa, è semplicemente una cosa: il programma rivoluzionario comunista. Solo per questa via vi si può arrivare.

Come storicamente avvenga il superamento del capitalismo, lo si dimostra con una lunga analisi di un grande complesso di fatti, illuminata dalle anzidette leggi fondamentali. Anzitutto è chiaro come il capitalismo tenda ad assorbire tutte le forme economiche più arretrate nel vortice del rinnovamento di valore di cui ogni momento della produzione industriale è un fattore molecolare. Come separa Graziadei da queste dimostrazioni le mirabili pagine del Manifesta sulla missione storica rivoluzionaria della borghesia moderna? Vengono quindi le leggi del divenire capitalistico, delle sue crisi, della inevitabile sua catastrofe: anche questo Graziadei condanna, e promette di fame giustizia in altro libro. Senza deviare in una discussioile a tal proposito, che pure è di grande importanza, notiamo che Graziadei recide così un altro grande anello della catena logica che arriva a quel programma comunista che egli assume di accettare. ln ultimo, la dimostrazione della possibilità (ove esistano le condizioni mondiali della produzione capitalistica, con la sua divisione del lavoro e separazione del lavoratore dallo strumento produttivo) di una economia collettivi­sta, senza privati imprenditori, si adagia tutta sulla dimostrazione critica che tutto il profitto capitalistico, tutta la massa delle energie sociali utili, hanno origine nellavoro dei salariati.

Nella dialettica marxista ogni conquista della critica al regime presente corrisponde ad un postulato del movimento rivoluziona­rio. Le mirabili pagine del marxismo sul modo di concepire una economia comunistica, specie in risposta aIle tante equivoche predizioni socialistoidi, ad esempio lassalliane, vivono di questo legame tra la solida critica del presente e la preparazione rivoluzionaria del domani. Sulla distinzione basilare tra margini della produzione industriale e margini della pura intrapresa commerciale speculativa, si poggia la previsione che in regime collettivo avanzato una grande schiera di servizi saranno gratuiti, e non commisurati da prezzo: cosa in cui Graziadei non crede, come forse dirà in un libro del prossimo decennio, dimostrando così di non essere un socialista dal punta di vista economico.

E certo che allora il proletariato sarà rivoluzionariamente capace quando sarà convinto che la impalcatura del capitalismo è puramente parassitistica, e saprà quali parti dell’assetto economico che lo opprime devono crollare totalmente. L’economia antirivo­luzionaria cerca di stabilire che nel mondo capitalistico il meccanismo produttivo ha altre necessità che non sono la estorsione del plusvalore: questo basta a rendere problematico il suo abbattimento e la continuazione della produzione dopo di esso, anche se si concede che esista un fenomeno da chiamarsi prudentemente del sopralavoro, comune a tutti i sistemi economi­ci, ma spesso sopraffatto nelle conseguenze dei processi dei costi e dei prezzi, e tanto più secondario quanto più si modernizzerebbe nelle ultime forme il capitalismo ... Questa tesi è un’apologia come un’altra, più abile di un’altra, della economia borghese.

Quanto alla concezione politico-storica comunista, essa non è meno collegata alla critica economica. La scoperta del contrasto delle forme di produzione colle forze produttive, da cui sorgono i conflitti di classe e le rivoluzioni, è un risultato di quella analisi colla quale soltanto il marxismo può individuare e distinguere le varie forme economiche, e sopra tutte il capitalismo. I concetti di conquista violenta del potere e di dittatura proletaria sono derivati da quello di una crisi catastrofica del capitalismo, inerente alla sua stessa natura economica, di uno sfruttamento esasperato delle masse. Nessuna parte del programma comunista avrebbe trovata origine storica senza l’impiego dell’arma della critica proletaria contro le menzogne dei difensori dell’ordine borghese.

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Marxismo e scienza, economica ufficiale

 

La critica economica di Marx stabilisce dunque in modo completo il legame tra le dottrine della economia liberale e gli interessi di classe dei capitalisti: anzi spiega tutta la filosofia borghese come una traduzione della immaginaria eguaglianza sul mercato dell’individuo borghese, della finzione che ogni cittadino sia una «ditta» e una azienda economica, mentre in realtà la massa dei liberi cittadini resta sempre più diseredata e sfruttata. Di più, nella prefazione al Capitale, Marx, nel fare la storia della economia classica, dice che dal momento in cui il contrasto tra gli interessi borghesi e quelli proletari si delinea, non vi può più essere per borghesi una vera scienza economica, ma solo la difesa ufficiale del sistema capitalistico. Solo il proletariato è libero dai legami che impediscono alla verità scientifica di farsi strada nel campo arroventato della economia (3).

Per un marxista i tentativi di revisione come quello di Graziadei non significano che una concessione, se non un ritorno aIle esigenze dell’antiscientifica economia ufficiale; concessioni in tante più pericolose in quanta recano la firma di militanti comunisti. Il riavvicinamento alla maniera borghese di affrontare l’indagine economico-sociale, in contrasto a quanto ha il marxismo di più rivoluzionariamente fecondo, crediamo di averlo mostrato in modo indubbio.

E deplorevole che vi siano compagni che valutano i pretesi portati della moderna scienza economica universitaria e accade­mica dimenticando l’elementare avvertimento del nostro Maestro, e che si lasciano ingannare dalla ostentata imparzialità e fredda obiettività scientifica nel lavoro pettegolo di registrazione statisti­ca, che non èche l’ultima truccatura del tentativo di chiudere la via aile conclusioni rivoluzionarie della vera scienza economica, trattate, ad esempio da Pareto, come apriorismi sentimentali o metafisici. Chi cade in simile tranello non è degno di essere considerato un marxista comunista più del povero nostro Berti, che si entusiasma alle pagine di Graziadei, e arriva a parlare dei nuovi orizzonti del «criticismo marxista», cresciuto a scuola dei trattatisti borghesi in voga, e tenuto a battesimo da Graziadei ... e non si accorge che si tratta dei soliti orizzonti, dal raggio notoriamente assai limitato, del vecchio e repugnante ... onanisme antimarxista.

Nell’ultima parte del nostro scritterello verremo a cercare il senso della straordinaria pretesa di Graziadei di salvare, dopo tutto lo scempio della economia socialistica, il programma politico comunista.

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3. IL NEOREVISIONISMO DI GRAZIADEI OVVERO IL COMUNISMO DELLA SESTA GIORNATA

 

Marx ha studiato le condizioni tipiche della economia capitali­stica e, trovandosi per di più di fronte a coloro che nella libera concorrenza ponevano il più certo presidio della eternità del regime capitalistico, ha dato le leggi di uno sviluppo tipico dell’epoca capitalistica, quali possono essere dedotte dallaipotesi della piena libera concorrenza sui mercati. Ma Marx sapeva di fare opera di critico e di polemista politico, non di profeta, o si riservava di addivenire in altra sua opera allo studio più particola­reggiato dell’effettivo svolgersi del regime capitalistico sotto l’influenza di tutti gli altri fattori storici e sociali non puramente capitalistici. Questo non andrebbe dimenticato da Graziadei nei suoi ulteriori libri contro Marx.

La stessa coscienza di classe del proletariato, il cui sviluppo è stato accelerato dalle scoperte della dottrina marxista, conduce dapprima ad alterare le condizioni tipiche della libera concorrenza, poiché il sorgere dei sindacati operai, eliminando la completa libertà sul mercato della manodopera, obbliga i capitalisti a tenere più alti i salari e rallenta in un certo senso la accumulazione capitalistisca e il depauperamento proletario. D’altra parte il capitalismo risponde a questo coll’abbandonare a sua volta il puro terreno della autonomia delle aziende private in concorrenza, per addivenire alla costituzione dei sindacati e dei cartelli di cui tante parlil Graziadei, e porsi sulla via dell’imperialismo coloniale e militare.

Che questo complesso sviluppo si possa studiare assai bene tenendo ferme le leggi fondamentali dell’economia di Marx, lo si vede, per restare sul terreno delle considerazioni più sommarie, dal fatto che lo sbocco delle svolgimento capitalistico si è presentato quale Marx lo vedeva, nell’acutizzarsi del conflitto di classe, e la stessa prospettiva programmatica comunista ha avuta una prima grande realizzazione nella rivoluzione russa e nel modo col quale essa si è svolta. Che la storia abbia confermato Marx in politica, e lo abbia smentito in economia, appare assurdo, quando Marx dedusse il suo sistema di conclusioni storiche e programmatiche dalla, critica economica, come abbiamo già detto. Qui vogliamo aggiungere solo questo argomento, che vorrebbe più ampia trattazione: che una smentita a Marx non poteva venire dalla applicazione della sua critica a forme economiche di capitalismo nonconcorrentistico, in quanta Marx si era voluto porre nella condizione critica e quindi di battaglia polemico-politica più sfavorevole, prendendo a considerazione un capitalismo conforme alle condizioni volute dai teorici apologisti del liberismo.

Col rinunziare ai suggerimenti della sua scuola economica, lungi dal dedicarsi a ... smentire Marx, il capitalismo mostra di sentire la verità della critica socialistica e, di abbandonare teoreticamente e praticamente importanti posizioni conservatrici. Il passaggio ai fenomeni di monopolio è pregiudizialmente una vittoria della critica comunista ed una confessione di decadenza del capitalismo. E questa non è una nostra elucubrazione, in quanto corrisponde alla tesi dell’Internazionale comunista che il capitalismo, avendo dovuto nella guerra adottare forme di control­lo statale dell’economia, e nel dopoguerra tentare di stabilire un controllo centrale della produzione mondiale, dimostra giunta l’ora dell’organizzazione centrale della produzione, che il proleta­riato deve con la rivoluzione politica giungere a togliere alle potenze borghesi.

Graziadei, il quale pretende di accettare la parte «storica» del marxismo, capovolge intanto la concezione marxista della storia economica. L’ultima tappa del capitalismo, che mostra così evidentemente la giustezza della conclusione rivoluzionaria sulla necessità del passaggio dalla economia privata alla economia considerata affare collettivo e pubblico, suggerisce a Graziadei di sopravalutare ilcompito del capitale commerciale rispetto a quelle industriale, di presentare il profitto dei capitalisti come tratto da un sovraprezzo sui consumatori (questo è il capolavoro del nostro autore ...) nelle pure influenze sulla quotazione di compravendita del mercato. La storia economica del capitalismo come la vede Marx è capovolta: egli infatti vedeva nella forma commerciale una forma iniziale e arretrata del capitalismo, e nel suo aspetto industriale sempre grandeggiante e concentrante masse di lavora­tori il presupposto dell’avanzata verso il collettivismo. Come si vede, logicamente, dietro la parte economica anche la parte storica del marxismo se ne va alla deriva.

Che cosa dunque Graziadei pretende di accettare tuttora del comunismo di Marx, ossia del solo comunismo concepibile?

Evidentemente per parte storico-politica del marxismo Grazia­dei intende, staccandola da tutto il resto (e non sognandosi di dirci come la si farà nascere dalla teoria ... del sovraprezzo, che tutt’al più ci presenterebbe la eventualità di una crociata piccolo-borghe­se di consumatori e di cooperatori ...) la tesi che il proletariato farà bene ad adoperare la violenza per conquistare il potere e ad instaurare un regime di dittatura. Graziadei insomma accetta, bontà sua, la critica della democrazia come mezzo di lotta proletaria, o almeno come strumento del potere proletario, e la critica del pacifismo umanitario. Il revisionismo di Graziadei dunque differisce, lo riconosciamo subito, dal revisionismo classico di Bernstein, in una cosa importante: come questo, butta via tutta la teoria di Marx snI plusvalore e sullo svolgimento storico del capitalismo, ma non ne conclude che il proletariato debba per questo rinunziare alla rivoluzione e attendere per migliorare la sua situazione il lento evolversi progressivo della società borghese, utilizzando per la sua affermazione politica la democrazia elettiva.

Ma Bernstein era più logico, perché capiva come da quella spietata critica economica si potesse e dovesse arrivare al concetto di rivoluzione violenta e dittatura operaia,- e quindi rinunziando alla premessa cadeva la conseguenza: per Graziadei la conseguenza vive al di fuori delle premesse.

Noi non facciamo il processo ora aIle individuali intenzioni di Graziadei, ma ci chiediamo che cosa potrebbe rispecchiare, ove tendesse a diffondersi, il suo sistema di opinioni. Su questa via di indagine ci spingono altri esempi. Lenin, quando confutò la tesi di quei marxisti russi che pretendevano staccare il socialismo dalle sue basi materialiste e costruirlo su una nuova concezione filosofica idealistica, non solo demoli questa tesi in se stessa, ma dimostra come quello stato d’animo proclive al misticismo derivasse dalla situazione di disfatta e scoramento in cui il partito rossa si trovava dopo il 1905.

Ora ecco che cosa noi pensiamo, non di Graziadei, ma di un indirizzo come quello che egli prospetta quale risultato dei suoi studi di economista, e non ci vogliamo certo per questo paragonare a Lenin ...

Non occorre un grande sforzo per arrivare a giustificare teoreticamente la violenza politica e la dittatura e il terrore rivoluzionario. Nel campo proletario, è vera che queste tesi sono le più importanti tra quelle che distinguono noi comunisti dai falsificatori socialdemocratici, opportunisti, del marxismo. Ma in generale, riguardando tutti i campi politici, e tutto lo svolgimento storico, si tratta di verità banali, che tutte le rivoluzioni hanno confermato, e che la pratica di tutti i partiti ricalca in certe situazioni.

La borghesia stessa ha conquistato il potere colle armi e lo ha difeso col terrore. Poi ha proclamato che cessava la necessità di ogni analoga catastrofe, volta contro i vincitori di allora: ma in questo non ha fatto che ricalcare le orme di tutte le classi giunte a conquistarsi il potere... I democratici attuali, e gli stessi social­democratici, come in Germania e altrove, non hanno esitato ad impiegare in dati momenti la forza delle armi e la sopraffazione per difendere il loro potere da attacchi rivoluzionari, come non escluderebbero di toglierlo per tal guisa a una borghesia che distruggesse ogni garanzia di liberalismo politico: salvo in pratica a trovar modo di fare i bassi servizi anche a una tal classe dominante. E infine vi è oggi tutto il movimento fascista che apertamente proclama e giustifica l’usa della violenza e la dittatura: da destra s’intende. ln tutti questi casi vediamo che costa poco sforzo la tesi che per rompere le corna agli avversari non è il casa di tenersi aIle omelie pacifiste e agli scrupoli legali.

Questa tesi fa parte anche delle nostre, con tanta maggiore sincerità e logica che per tutti gli altri: ma essa non basta a definire il comunismo. Anzitutto questo prevede che le condizioni poste dalla vittoria rivoluzionaria della classe lavoratrice condurranno in una certa epoca ad un regime di convivenza sociale assolutamente pacifica e senza contrasti di classe, e colla soppressione delle differenze di classe aboliranno non solo ogni dittatura, ma ogni forma di Stato.

Ed inoltre la origine storica delle forze che il comunismo considera come realizzatrici del processo rivoluzionario è stretta­mente legata alla situazione della classe oppressa sotto il capitali­smo, all’obiettivo di eliminare lo sfruttamento del salariato, alla costituzione del partito di classe dei lavoratori in tutti i paesi.

Questo processo di formazione delle armate e deipoteri che maneggeranno la violenza e la dittatura rivoluzionaria non si pua separare dalla lotta contro il capitalismo e dai postulati della demolizione critica di tutte le sue manifestazioni.

Separare queste parti della costruzione comunista vuol dire esporsi a dare ragione, in nome del diritto del più forte, ad ogni banda di predoni che possa per fortunate circostanze arrivare al potere, o a fornire a questa degli argomenti giustificativi, anzitutto superflui, e in seconda luogo fritti e rifritti, da quando Machiavelli ebbe il coraggio di confessare per iscritto quello che tutti gli uomini dei partiti di governo pensano e praticano. Ma il partita del proletariato pensa e pratica qualcosa di più di costoro, se pure è pronto a non lasciarseli indietro nella decisione a colpire l’avversa­rio. La politica del proletariato resta definita dai suoi mezzi, ma anche e soprattutto dai suoi fini: come è erroneo staccare il fme socialista dai mezzi rivoluzionari o collocarlo alla fine di lunghe pratiche pacifiche e legali,  così è altrettanto erroneo svalutare le finalità socialistiche, la cui conoscenza e valutazione è in rapporta diretto coi colpi che la nostra critica assesta all’economia borghese, per attribuire valore decisivo ai soli mezzi, e quasi alla esteriorità della loro tecnica.

Graziadei arriva al di là di quei socialisti tradizionali che un bel giorno si sono svegliati schiavi di sciocche, bambinesche formule umanitarie e democratiche. Egli è, ci si permetta l’espressione nel suo buon senso, abbastanza cinico da non lagrimare come un Turati sui violati diritti delle minoranze e la disonorata civiltà dei costumi. Ma la sua attitudine di fronte a tutta la costruzione unitaria del marxismo rivoluzionario ci dimostra come il suo pensiero non aiuta e non segue lo sforzo mirabile della classe rivoluzionaria, da quando, non ricca ancora di modemi mezzi bellici e di organizzati poteri, nei primi gruppi precorritori tenta e saggia le mura implacabili della fortificazione capitalistica.

Per Graziadei il proletariato avrà ragione, avrà avuto ragione di vincere non risparmiando il nemico: ma avrà avuto torto quando, spezzando faticosamente pregiudizi e menzogne ufficiali, contro l’irrisione degli «scientifici», traeva dalla critica al regime avverso i materiali percostruire il suo avvenire.

La posizione di Graziadei è insostenibile. Noi non lo vogliamo offendere, ma solo dire che il suo stato d’animo, ove fosse di natura collettiva, ci apparirebbe come quello dei comunisti che sono tali a rivoluzione avvenuta. Ecco perché vogliamo chiamare il suo revisionismo il «comunismo della sesta giomata».

Esiste il pericolo che sorgano di tali comunisti, da quando una grande rivoluzione comunista ha trionfato malgrado le ironie e lo scetticismo di costoro in altri tempi. Questi revisionisti potrebbero divenire i parassiti della ormai assicurata vittoria di tale rivoluzio­ne, e su di essa agire pemiciosamente.

Ammirare i bolscevichi perché hanno saputo non farsi legare le mani da esitazioni imbecilli nel momento in cui bisognava colpire senza esclusioni càvalleresche, e congratularsi seco loro, è forse qualcosa, ma si riduce a niente quando si vuole poggiarsi un poco su quegli allori, ma non ripromettersi di seguire la via che seguivano i bolscevichi stessi negli anni terribili, quando ogni costruzione teorica, e organizzativa costava una battaglia, spesso sanguin osa, e la desolazione si stendeva spesso intomo alle grandi figure dei loro capi.

Io critico il compagno Graziadei solo per questo: per aver fomito armi teoriche a chi volesse con sì poca fatica meritare di assidersi tra le prime schiere vincitrici del proletariato.

Lo scetticismo in veste di cacadubbismo scientifico, e la parvità di spirito che si mostra riel preoccuparsi di non apparire «sorpassati» secondo le mode banali della scienza accademica, sono troppo lontani da quella disposizione alle lotte implacabili da cui noi dobbiamo trarre l’apologia della violenza e della dittatura rossa, gridata non dalle torri del Kremlino gloriosamente conqui­state al proletariato, ma dalle non mena gloriose posizioni tenu te malagevolmente in faccia alla tracotanza dell’avversario tuttora dominante.

Perché quello del proletariato che stroncherà gli ostacoli sulla via che mena alla società nuova, non sarà il cinismo alla Machiavelli né l’egoismo di una vittoria occasionale che possa aver nome da partiti o da capi, bensì la forza cosciente di una classe giunta allo sbocco che si tracciò nella sua coscienza attraverso anni di sofferenze e di ribellioni, attraverso esperienze ed insegnamenti che le dettarono il diritto e il dovere, se si vuole, ma soprattutto la necessità reale e scientificamente sentita di percorrere quella via che conduce alla conquista dell’avvenire, come negazione rivolu­zionaria di tutto il turpe presente. Potrebbe passare attorno a noi ancora una volta la raffica della sconfitta a toglierci ogni palpabile punta di appoggio nelle posizioni già guadagnate: non per questo dovrebbe venir mena nel nucleo più fedele delle nostre schiere la preparazione ideale e materiale alla lotta da rinnovare incessante­mente. Perciò noi- vogliamo radicata la nostra convinzione della bontà delle armi che impugneremo senza esitare, sulle basi della costruzione critica che ad essa ci condusse, sviscerando la natura della società borghese e del suo necessario soccombere fin da quando essa appariva una imprendibile e inviolabile fortezza. E ci pare che l’attitudine del compagno Graziadei, che modestamente troviamo errata nel sua con tenuto intrinseco di discussione scientifica, equivalga politicamente ad un rivoluzionarismo spurio e sospetto, non alieno da pericoli ove si alimentasse tra gli elementi più deboli e accomodanti della nostra milizia.

Ad altri stabilire, dopo tutto questo, se sia accettabile la dichiarazione di Graziadei, che la appartenenza ad un Partito comunista non lo impegni oltre la accettazione del programma svolto nel Manifesto dei Comunisti, al quale del resto lo consideriamo infedele per lati molto importanti. Il torto qui non puo essere tutto di Graziadei, ma anche di quell’indirizzo cui paiono incomode le troppo scrupolose e definite codificazioni programmatiche delle dottrine di cui consiste il comunismo; precisazioni che sono invece per chi scrive una vitale necessità del movimento, se questo non vuole trovarsi in certi momenti, tra altri gravi inconvenienti, in condizione di far passare come i suoi esponenti più ortodossi proprio quelli che ne stanno in equilibrio molto instabile sui margini estremi.

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1. Si tratta di Prezzo e sovraprezzo nell’economia capitalistica, cit.

2. Cfr. Il Capitale, I, ed. cit., pp. 254-257.

3. Cfr. Il Capitale I, ed. cit., pp. 40-41 (prefazione di Marx alla seconda ed.): «La borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suono la campana a morto. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vera o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o mena alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono i pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia. intenzione dell’apologetica». Più oltre, a proposito del fatto che lo sviluppo storico peculiare della società tedesca vi escludeva una originale continuazione dell’economia politica borghese, Marx aggiunge che cio non ne esclude lo sviluppo della sua critica: «Se e in quanta tale critica rappresenta una classe in generale, può rappresentare solo la classe la cui funzione storica è il rovesciamento del modo di produzione capitalistico e infine l’abolizione delle classi: cioè il proletariato».

 

 

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